Home » Articoli » Progetti » Chianti sulle tracce del Beato Benedetto Ricasoli

Chianti sulle tracce del Beato Benedetto Ricasoli

pubblicato in: Progetti

In una splendida domenica di gennaio, mi trovo con Renzo Centri, esperto di sentieri del Chianti, Claudio Bonci, amante e conoscitore di storie del Chianti ed Elisa Leoncini, guida ambientale escursionistica, per andare a visitare il luogo che dette i natali nel 1040, data non certa, al Beato Benedetto Ricasoli, discendente della famiglia nobile di Agilulfo d’Ildebrando e di Geremia, feudatari di Montegrossi, di origine longobarda, la cui casata prese successivamente il nome Ricasoli. Il cielo è terso, completamente privo di nuvole, il freddo è pungente e le foglie ghiacciate sul sentiero, che mena verso la rocca di Montegrossi, scricchiolano sotto le nostre suole. Arriviamo in cima alla collina, al rudere di quella che fu l’abitazione di Benedetto Ricasoli.

“Purtroppo – dice Claudio Bonci – questa torre piano piano sta crollando, e tutto intorno non è rimasto niente di quello che furono le costruzioni e le case degli abitanti del castello.” Provo a immaginare quel luogo di silenzio in fervida attività, e ne resto ammaliata.

Renzo Centri pare leggermi nel pensiero: “In questo posto si respira un’aria densa di fascino, forse anche per la posizione di dominio di questa torre che dà la misura dell’importanza e del ruolo che aveva la famiglia di Benedetto. E tuttavia fa riflettere che un uomo, che sicuramente conduceva una vita di agi e di piaceri, abbia deciso di lasciare tutto per dedicarsi alla preghiera e ritirarsi nel monastero che è dall’altra parte della collina. Ora andremo lì, ma non sarà possibile fare la strada sul crinale che fece lui.” dice, mentre punta l’indice in direzione della Badia a Coltibuono. Ripartiamo, il sole con i suoi raggi luminosi irradia la valle sulla nostra sinistra, e il silenzio torna a essere nostro compagno, infranto solo dalle suole che continuano a far scricchiolare le foglie ghiacciate e dal frusciare degli arbusti che sfregano sulle giacche al nostro passaggio.

Quando poniamo i piedi sulla strada asfaltata si riaccende la voglia di parlare e torniamo al presente, lasciando lassù l’aura del passato cullata dal silenzio.  Mentre camminiamo verso  Badia a Coltibuono, Elisa Leoncini racconta il passaggio clou della vita di Benedetto: “Alla morte del padre capì che la vita condotta fino ad allora non gli interessava più e prese una decisione importante. All’epoca era poco più che quarantenne, e scelse la povertà: donò la sua parte di eredità al monastero, nel quale, dopo essersi spogliato di tutti i suoi beni entrò come fratello converso. Suo padre, anni prima aveva donato la Badia, che era una loro proprietà, proprio ai monaci Vallombrosani, ignaro che un giorno suo figlio ne avrebbe fatto parte.” 

Al termine del tratto asfaltato, la strada sterrata è circondati da alberi imponenti e sale fino alla Badia a Coltibuono, che  si staglia nel cielo limpido.

Purtroppo la chiesa dove risposano le spoglie del Beato è chiusa. Ho avuto modo di vederle qualche mese fa, senza conoscere la storia di quel corpo che da lungo tempo giace sotto l’altare maggiore della chiesa intitolata a San Lorenzo. Dopo una breve sosta e qualche scatto fotografico ripartiamo per la tappa successiva. “Benedetto visse alcuni anni nel monastero, dopodiché decise di ritirarsi in eremitaggio in un romitorio nel bosco, – continua a raccontare Elisa Leoncini – dal quale si spostava solo per fare ritorno alla Badia dai confratelli, sicuramente per il Natale, la Pasqua, e forse qualche altra solennità. E là, in quel luogo che veniva chiamato il Castellaccio, visse per dieci anni. Questo Castellaccio doveva essere una costruzione di proprietà della famiglia, ridotto al pari di un rudere o poco più di una capanna.”

Ci addentriamo in un sentiero stretto e, dopo pochi passi, davanti a noi, si profila un’edicola al cui interno c’è un mezzo busto del Beato.

Renzo Centri ci invita a proseguire: “Hanno eretto qui questa costruzione, ma il luogo dove viveva Benedetto è più avanti, poco distante.” Camminiamo ancora qualche minuto e ci fermiamo in uno spiazzo nel mezzo al bosco. “Ecco, il Castellaccio era in questo punto, purtroppo non è rimasto niente, se non qualche pietra sparsa.” spiega Renzo Centri, mentre ci muoviamo in quello spazio fra gli alberi in cerca di una traccia e soprattutto immaginando Benedetto assorto e in contemplazione.

“Nessuno sapeva cosa facesse quassù – interviene Claudio Bonci – Immaginiamo che pregasse tutto il giorno. Sappiamo che aveva un cane: Acate, che faceva da spola tra il romitorio e il monastero per portargli del cibo. Era l’unica sua compagnia in quella vita vissuta isolato dal mondo.” Claudio Bonci ci regala una chicca raccontando come i monaci scoprirono la sua morte: “Era il 20 gennaio, anno 1107, quindi in pieno inverno, perciò non è insolito che nevichi. E infatti, quel giorno ci fu una nevicata eccezionale, insolita, di proporzioni mai viste prima. All’epoca il campanile non era stato ancora eretto, ma la campana della comunità, nella notte,  suonò senza che nessuno tirasse la corda: questo fece insospettire i monaci sulla sorte di Benedetto,  per cui decisero di andare nel bosco a cercarlo. Dalla neve che c’era non riuscivano a camminare, ma la cosa incredibile fu che la neve, man mano che i monaci procedevano, si scioglieva rendendo loro agevole il passaggio, mentre una luce celeste scendeva dal cielo e  indicava loro il cammino. Fu così che arrivarono al romitorio e trovarono l’Eremita morto. Quindi, preso il corpo lo portarono alla Badia e questa volta senza nessuna difficoltà perché il loro passaggio aveva completamente pulito il percorso che avevano fatto all’andata.” “Dopo di allora – interviene Renzo Centri – per  due volte,  a Benedetto, fiorì un giglio in bocca a dimostrazione delle sue virtù. Ciascuna volta il giglio aveva un profumo intenso, un odore meraviglioso, più di quello dei gigli nei giardini. La prima volta successe  proprio nel 1107 e la seconda nel 1460, quando, rimossa la lapide e poi la terra, trovarono il corpo perfettamente conservato con un bel giglio che gli usciva dalla bocca.” “Si narra anche  – interviene Elisa Leoncini – che, nel corso del tempo, nella ricorrenza della morte del Beato, molte persone che hanno dormito nella Badia a Coltibuono abbiano sentito, e qualcuno anche visto, cori di monaci  nel chiostro della Badia, dove inizialmente fu sepolto, prima di essere traslato, nel 1430, sotto l’altare maggiore”. E con questo aumenta l’aura di mistero e sacralità intorno alla storia di Benedetto Ricasoli: religioso vallombrosano beatificato da Papa Pio X il 29 maggio del 1907 al quale, nel 1716, venne posto in bocca un giglio d’argento come emblema di colui che si rivolge a Dio con fede e purezza.

Silvia Ammavuta